Roma, 10 apr. – Prima del progresso, prima del ‘modernismo del novecentismo’ citato in Vecchia Roma ci si poteva ancora permettere di essere perfettamente pigri ed indolenti senza rischiare di sentirsi accusati di uno dei peggiori crimini dell’umanità: essere improduttivo. Perché se “l’ozio è il padre dei vizi” è pure vero che per i romani – antichi e un po’ pure per quelli contemporanei – l’otium può essere creativo e a modo suo e rigenerante. «O Meliboee, deus nobis haec otia fecit» , dice Virgilio nelle Bucoliche – «O Melibeo, quest’ozio è il dono di un dio».
“L’indolenza” di Aldo Fabrizi: un sonetto romano perfetto per la domenica
Tra i più pigri e creativi romani mai esistiti c’è sicuramente Aldo Fabrizi, nato in una umile famiglia (il padre, Giuseppe, vetturino, pare fosse originario, secondo alcune recenti ricerche, di San Donato Val di Comino, mentre la madre, Angela Petrucci, di famiglia originaria di Tivoli, gestiva un banco di frutta e verdura in Campo de’ Fiori, nato in un’abitazione in vicolo delle Grotte 10 (dove ancora oggi esiste una targa commemorativa). All’età di undici anni rimase orfano del padre Giuseppe (1879-1916), morto per una polmonite fulminante contratta cadendo con cavallo e carretto in un fosso romano; costretto così ad abbandonare gli studi per contribuire al sostentamento della numerosa famiglia – che comprendeva anche cinque sorelle tra le quali Elena Fabrizi, in seguito soprannominata Sora Lella – si adattò a fare i lavori più disparati.
Le poesie
Nonostante le difficoltà, la sua vocazione artistica riuscì a esprimersi pubblicando nel 1928 nelle edizioni della Società poligrafica romana (non si sa se a proprie spese) un volumetto di poesie romanesche intitolato Lucciche ar sole, che riuscì a far recensire sul quotidiano Il Messaggero, e partecipò inoltre alla redazione del giornale dialettale Rugantino; nello stesso periodo cominciò a calcare le scene, prima con la Filodrammatica Tata Giovanni, poi come dicitore in teatro delle sue stesse poesie, come era ancora uso in quegli anni. Aldo Fabrizi, sulla pasta e le sue tante e diverse ricette scrisse anche alcune poesie in dialetto romanesco. Una di queste ‘celebra’ l’indolenza uno dei difetti/virtù del popolo romano.
Indolenza romana
L’autentico romano è questo qui:
risparmia er fiato ar massimo che po’,
dondola la capoccia pe’ di’ “No!”
e abbassa l’occhi si ha da di’ de sì.
Pe’ risponne ar telefono fa: “Si…”
Si ha da chiama’ quarcuno, strilla: “Aò!”
E quanno co’ le mano forma un “O”
vordì du’ occhi o un bucio da ingrandì.
Invece si le mano, in quella posa,
pe’ due tre vorte l’arza e le riabbassa,
vò intenne che s’è rotto quarche cosa.
Insomma li romani, bontà loro,
so’ così igri ch’a ‘gni nòva tassa
dicheno solamente “tacciloro!”
Ilaria Paoletti