(di Beatrice Nencha) Salvatore Buzzi e Massimo Carminati, Riccardo Brugia e pochi altri. Sono ridotti all’osso i nomi “eccellenti” che rispondono alla chiamata del presidente Tommaso Picazio, nel giorno della fatidica sentenza del processo di Appello bis al “Mondo di Mezzo”. Su 20 imputati dell’Appello bis, oggi nell’aula Europa sono più le presenze degli avvocati e della stampa a riempire la sala. Prima della Camera di Consiglio, che durerà ben 4 ore, Carminati, il Nero del “Romanzo Criminale”, si abbandona a un commento: “Tutti sanno del mio passato criminale, ma in questo processo non ho fatto niente. Anzi, sarebbe stato più vantaggioso commettere dei reati. Ma forse gli servivo per coprire altri processi?”. Per lui, la nuova sentenza di secondo grado sarà clemente: 10 anni. Da domani, sarà alla prese con un nuovo trasloco. Stavolta da Sacrofano a Roma, secondo le disposizioni del tribunale di Sorveglianza, che gli impongono di riavvicinarsi a quella Roma Nord da sempre considerata il suo “feudo”. Meno bene è andata al suo coimputato d’eccellenza, Buzzi, che esce dall’Aula con una pena di 12 anni e 10 mesi ma ha ancora altri filoni aperti, a piazzale Clodio, che potrebbero tenerlo impegnato per anni. Sempre che non decida, anche per questo verdetto, di ricorrere nuovamente in Cassazione. Sono 13 gli imputati che hanno patteggiato, la maggior parte sono liberi da tempo o in prova ai servizi sociali. Grazie a una sentenza clamorosa, pronunciata il 22 ottobre 2019 dalla VI sezione penale della Cassazione, che ha cancellato l’aggravante mafiosa ai 17 imputati ai quali era stata contestata. Ricalcando la sentenza di primo grado e riconoscendo l’esistenza di due associazioni criminali “semplici”. Archiviando, per sempre, la pesantissima accusa di 416 bis e la teoria della “riserva di violenza”. Con questa imputazione erano finiti in carcere – senza distinzioni – criminali, colletti bianchi, politici locali e l’intera dirigenza della cooperativa “29 Giugno” tra la fine del 2014 e l’estate del 2015. Nelle due ondate di arresti che hanno terremotato la politica capitolina e sono culminati nella richiesta di oltre 200 anni di carcere complessivi per i 43 imputati del primo grado.
Oggi l’unico a rischiare di tornare in carcere era proprio l’ex ras delle cooperative sociali, Buzzi, che aveva sulle spalle una condanna a 18 anni e 4 mesi. Contro i 14 anni e mezzo inflitti dal primo Appello al non più “sodale” Carminati. Quel “re” di Roma tornato anche lui libero mesi fa per decorrenza dei termini. Si chiude qui, salvo ulteriori eccezionali impugnazioni, quel maxi-processo che ha portato la firma, nel bene e nel male, dell’ex procuratore capo di Roma, Giuseppe Pignatone. Oggi presidente del Tribunale della Città del Vaticano. Ma ancora protagonista delle tumultuose vicende della magistratura dopo l’esplosione del “Palamaragate”.
Dopo l’accusa di mafia, la sentenza di oggi liquida un altro importante capo d’imputazione: la turbativa della gara per l’aggiudicazione dei servizi del Cup regionale. Ovvero l’appalto per il centralino unico delle prenotazioni sanitarie, dal valore di circa 60 milioni di euro, per cui è già stato assolto l’ex capo di gabinetto di Zingaretti, Maurizio Venafro, in uno dei filoni stralcio dell’inchiesta. E per cui oggi è stato prosciolto Angelo Scozzafava, unico membro di quella commissione ad essere stato indagato e processato nel filone principale.
Varie le reazioni dei pochi imputati presenti in Corte di Appello, in una serata ventosa e battuta da una pioggia sferzante. Non c’è autentica gioia, sono in pochi ad esultare. Sono una manciata gli imputati riusciti a conservare il proprio posto di lavoro. Molti hanno ancora i beni sequestrati e la banca gli ha imposto di chiudere i conti correnti. Tutte le cooperative della galassia fondata da Buzzi sono fallite, lasciando a casa 1300 soci-lavoratori nel silenzio generale. In parte per il venire meno degli appalti pubblici, legati alle sorti del processo. “Dal raffronto dei bilanci 2014/2017 del gruppo “29 Giugno” si rileva che dal 2014 al 2017 – malgrado la gestione 2014 si fermi al mese di novembre per gli arresti del 2 dicembre 2014 di tutti i dirigenti – si è verificata una riduzione del patrimonio netto di € 14,5 milioni e un calo del fatturato di oltre il 20%”, ci spiega uno degli ex dirigenti della holding rossa. Che aggiunge: “Dalla lettura dei bilanci depositati in Camera di Commercio è macroscopico l’aumento dei costi del personale a fronte della riduzione del fatturato e l’aumento dei costi per servizi e “consulenze” tecniche e legali. Oltre a spropositati debiti coi fornitori. È risaputo che le amministrazioni giudiziarie provochino la chiusura delle imprese loro affidate in oltre il 90% dei casi e la vicenda “29 Giugno”, purtroppo, non ha fatto eccezione”. Più duro il commento dell’avvocato Alessandro Diddi, in aula con una caviglia fratturata: “I nostri amministratori pubblici fino a ieri individuavano in “Mafia capitale” il capro espiatorio delle proprie incapacità e inefficienze. Oggi la Corte di Appello, più serena, priva di pregiudizi e indipendente, non ha voluto avvalorare di nuovo questo tipo di percorso e la ringrazio. Ma andremo fino alla Corte europea dei Diritti dell’Uomo per denunciare questo scempio che sono attualmente le misure di prevenzione in Italia. E’ la distruzione del tessuto economico e l’arricchimento di un piccolo gruppo di commercialisti che fanno gli amministratori giudiziari, e vorrei invitare l’autorità giudiziaria a verificarne il tenore di vita. Ricordo a tutti che, se non ci fosse stato il reato di mafia, le cooperative di Buzzi non sarebbero mai state sequestrate”.
Tra gli imputati, c’è chi ha iniziato una vita nuova e si è dato alla scrittura. E’ il caso di Claudio Caldarelli, che ha patteggiato a poco più di 4 anni la condanna originaria di 9 anni, una delle più alte comminate. E che proprio in carcere ha scritto il suo primo libro “Mafia Capitale – La verità raccontata da un protagonista”. Una biografia sull’esperienza, per lui inedita, dei 42 mesi in cella trascorsi a Rebibbia. Mentre in un secondo tempo, ai domiciliari, ha dato alle stampe il secondo volume “La chiamavano Mafia Capitale”, il racconto del suo lento ritorno alla vita, questa volta “imprigionato” dallo scoppiare della pandemia.
Ma ad impugnare la penna è stato anche il suo ex capo, Buzzi, che con l’appoggio dei Radicali ha già presentato in molti salotti tv “Se questa è mafia“. Una controstoria, carte processuali alla mano, del maxi-processo più clamoroso degli ultimi anni. Rovesciato nella prospettiva di un imputato eccellente rinchiuso in un carcere di massima sicurezza, quello di Tolmezzo, a cui il mondo sembra aver voltato improvvisamente le spalle. Soprattutto quel mondo politico romano, finanziato per oltre un decennio a colpi di bonifici per campagne elettorali e con assunzioni nelle sue cooperative.
La quasi totalità dei coinvolti nell’Appello bis, 13 su 20 imputati, hanno patteggiato per usufruire dello sconto di un terzo della pena. Ma non tutti si sono voluti “piegare alla ragione di Stato”. Claudio Bolla, condannato in via definitiva a 3 anni due mesi e 20 giorni, è uno dei 7 “irriducibili”, che non ha presentato l’istanza: “Non voglio dialogare con chi mi ha sempre considerato un mafioso e mi ha trattato solo come un numero. Ho rifiutato il patteggiamento perché voglio dimostrare la mia onestà fino alla Cedu. So che la mia scelta è masochista. Se dovessi essere condannato, almeno sarò in pace con la mia coscienza”.
“Mafia capitale” ha rappresentato anche il biglietto da visita del super procuratore palermitano Giuseppe Pignatone, lanciato con grande clamore dai media non appena insediato ai vertici di piazzale Clodio il 19 marzo 2012. Ma al suo addio alla Procura, sei anni dopo l’apertura dell’Aula bunker di Rebibbia, l’inchiesta si è tramutata in un boomerang. La durissima sentenza vergata dagli ermellini di Palazzo Cavour ha spazzato via la parola “mafia” dalla denominazione stessa dell’inchiesta. E oggi, alla fine, hanno perso tutti.