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La solitudine di un anziano invisibile: la storia di Ettore, dimenticato anche al suo funerale

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Città sola. È una città nella città. Difficile vederla perché è fatta di ombre, di gente che sguscia via, vagabonda, scompare. Oppure resta chiusa in casa, per settimane, per mesi. Qualcuno insiste, suona al campanello, non risponde nessuno, lascia perdere. Una scrittrice britannica, Olivia Laing, ha scritto un libro intitolato così, “Città sola”. Parla di New York, ma potrebbe essere qualunque altra metropoli.

Qualunque somma di migliaia di finestre, massa di cemento e vetro – può dare un senso di vitalità quasi elettrica; può dare un senso di solitudine paralizzante. C’è chi, seduto sul divano, guarda il mondo scorrere dietro il vetro, con una sofferenza e una estraneità così acuta che vorrebbe dissolversi, non esistere più. Ma tu cosa ne sai, io cosa ne so. Poi arriva la notizia sul giornale, una notizia come quella che stai leggendo.

Parla di un uomo, si chiama Ettore, è morto solo, senza nessuno, e soltanto Simona, una operatrice della Caritas l’ha scoperto, perché ha insistito, è tornata a casa sua, gli ha citofonato a lungo. Sì, per carità, aveva un carattere difficile, scontroso, ma qualche volta dire ” non ho bisogno di niente” è un modo per dire il contrario. E comunque, bisogna insistere un po’, bisogna insistere anche per aiutare. È andata così. È andata che Ettore è morto sul suo letto, con accanto un telefonino che non usava. È andata che al suo funerale non c’era nessuno.

Come in quel film, “Still life”, sulle esequie di chi non ha parenti né amici, di chi è solo al mondo. O come in quella storia che sta tutta dentro una canzone dei Beatles e racconta di Eleanor Rigby che muore come muoiono le persone che sono sole e non si sa a chi appartengano, a cosa. Ettore, un abitante di questa città, è uscito di scena così, o forse sarebbe giusto dire che non ci è mai entrato. Per le strane e dolorose traiettorie che prende un’esistenza.

Non è possibile dirlo né saperlo, perché la biografia di Ettore nessuno può scriverla. Fra la data di nascita e quella di morte c’è uno spazio bianco, centinaia di migliaia di ore cancellate, senza traccia. L’unica che resta è quella che poi finisce sul giornale, la storia di un uomo che muore solo, una storia che ti fa dire: che assurdità, tu guarda cosa accade in questa città. È un dispaccio dalla città sola, il quartiere diffuso degli invisibili. È la pagina che hai sotto gli occhi e non riscatta il dolore, può solo dargli un nome. (da la Repubblica)

 

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